Ma che cura! Ecco quando è reciproca

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La cura reciproca si basa su un concetto fondamentale: il riconoscimento di un doppio bisogno. Da un lato, c’è il bisogno di ricevere cura, facilmente identificabile e al centro di gran parte delle dinamiche attuali nei servizi di assistenza. Dall’altro, esiste il bisogno meno evidente di restituire cura, che, se non riconosciuto, rischia di infantilizzare le relazioni di assistenza e trasformare la cura in una merce, orientata esclusivamente alla prestazione.

Il mercato della cura, oggi, è sempre più pervasivo e tende a controllare i bisogni delle persone, rispondendo con una continua creazione di nuovi servizi, i quali spesso alimentano nuovi bisogni. Tuttavia, nella mia esperienza maturata a contatto con le persone anziane, ho imparato che esiste un bisogno primario a cui non si risponde adeguatamente: il loro desiderio di restituire cura. Riportare la cura in una dimensione relazionale, non solo consumistica, è cruciale per garantire una qualità di vita autentica.

Le residenze assistenziali per anziani sono oggi la rappresentazione più plastica di un’economia della cura in crisi, intrappolata in un circolo vizioso di bisogni crescenti e servizi che non soddisfano pienamente queste necessità. La figura dell’”ospite”, che vive per anni in queste strutture, diventa sinonimo di un ricevente passivo di cure. Viene progressivamente educato a tornare bambino, attraverso una serie di tappe che seguono una logica ben definita, dalle terapie occupazionali ai piani di autonomia che, però, raramente sfuggono al processo di infantilizzazione.

Relazioni di cura

Non è solo l’anziano a essere vittima di questo sistema. Anche i familiari attraversano un processo simile, trasformandosi da figli o coniugi in semplici “referenti”, distaccandosi lentamente dalla loro relazione affettiva. Quando una famiglia si rende conto di non essere più in grado di prendersi cura del proprio caro e decide di affidarlo a una struttura, sperimenta una forma di lutto anticipato. Questa sofferenza, apparentemente inspiegabile considerando i miglioramenti professionali e strutturali offerti dalle RSA, deriva dal graduale svuotamento della relazione di cura.

Il modello attuale di assistenza è il frutto di un’epoca che difficilmente poteva immaginare alternative. Tuttavia, oggi, grazie alle moderne tecnologie e alle nuove visioni sulla cura, possiamo proporre modelli residenziali alternativi, fondati sul paradigma della cura reciproca. Credo fermamente che un sistema di assistenza che riconosca il bisogno di cura sia nell’anziano sia nei familiari non solo rispetti maggiormente la dignità delle persone, ma sia anche economicamente più sostenibile.

Questo modello migliorerebbe anche la qualità del lavoro dei sanitari, che spesso si trovano a fronteggiare la frustrazione di “ospiti” e “referenti”, insoddisfatti per l’ammutinamento della relazione di cura, seppure di fronte a prestazioni eccellenti. Il personale infermieristico e assistenziale, trattato troppo spesso come mercenario in una guerra che i parenti rinunciano a combattere (per mille validi motivi), potrebbe finalmente operare in un contesto che riconosce e valorizza la dimensione relazionale della cura.

I tre cardini

Le residenze per la cura reciproca non devono essere strutture futuristiche da costruire ex novo. Esse rappresentano un’opportunità per ridisegnare il sistema esistente, superando il tradizionale antagonismo tra domicilio e residenzialità. Questo può avvenire attraverso tre pilastri principali:

  1. Rendere i familiari protagonisti: Coinvolgere i familiari nella cura dei loro cari non dovrebbe essere lasciato al caso, ma istituzionalizzato all’interno dei piani di lavoro delle residenze. Le RSA devono riabilitare il linguaggio della cura tra parenti e anziani, creando spazi e modalità specifiche per permettere ai familiari di continuare a prendersi cura del proprio caro, magari attraverso una formazione adeguata.
  2. Attività partecipative per i residenti: Gli anziani non devono essere solo “ospiti” passivi. Possono essere coinvolti in attività compatibili con le loro condizioni fisiche, come apparecchiare i tavoli o accogliere i visitatori, avere turni e impegni quotidiani, che non siano solo fogli con disegni infantili da colorare. Questi gesti, sebbene piccoli, possono restituire agli anziani un senso di partecipazione attiva alla vita comunitaria, evitando che le strutture diventino prigioni dorate dove la passività regna sovrana.
  3. Connettere le residenze con la comunità: Le RSA devono essere integrate nel tessuto urbano, creando opportunità di volontariato non solo per i giovani che assistono gli anziani, ma anche per gli anziani stessi. Immagino corsi di uncinetto, laboratori linguistici o canali social gestiti dagli anziani, dove condividono la loro saggezza e partecipano attivamente alla vita della comunità.

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