Luca Iacovone

Sulla Via d’Assisi

Era nella mia To do list da tanti anni e finalmente ieri sono riuscito a completarlo. Secondo alcuni è il Cammino di Santiago italiano, va da La Verna fino ad Assisi (questo è il pezzo che ho percorso io) e conta circa 200 chilometri di continui saliscendi, con pendenze e dislivelli che rompono il fiato e mettono a dura prova anche lo spirito.

Avevo deciso di affrontare questo cammino di ritorno da Santiago, ben 4 anni fa: quello fu il mio battesimo nel mondo dei cammini. In quell’occasione documentai i 23 giorni di cammino lungo la Via Francese (circa 800 chilometri) sul mio canale YouTube: altrettanti video quasi in presa diretta che pubblicavo ogni giorno e che ogni tanto ancora torno a vedere.

Di questo cammino, invece, mi restano pochissime foto e tante emozioni contrastanti. Soli 7 giorni e tutto è andato in modo completamente diverso da come me l’aspettavo. Ho organizzato la partenza in modo frettoloso, la decisione l’avevo presa solo qualche giorno prima, ma con la baldanza del vero esperto: zaino leggerissimo, 6 chili appena, tracce gps scaricate e la credenziale arrivata giusto in tempo per la partenza.

Anche questa volta sono partito in solitaria, ma non mi aspettavo di restare solo per davvero lungo tutto il percorso. Se lungo la via Francese per Santiago non è stato semplice ritagliarmi momenti di silenzio personale, al contrario sulla Via d’Assisi ho parlato al vento per sentire la mia voce, in molte accoglienze ho dormito solo: «giugno è un mese strano – mi hanno detto in diversi – per giorni e giorni non c’è nessuno sul Cammino, poi all’improvviso tantissimi». Per uno come me che si nutre di storie e racconti di persone sconosciute, affrontare tutta insieme quella grande solitudine è stata una sfida durissima.

Il primo giorno di Cammino è scivolato via rapido e anonimo: tappa brevissima, solo 15 chilometri fino a Pieve Santo Stefano. Ho scoperto troppo tardi che avrei potuto proseguire fino all’Eremo del Cerbaiolo e chiedere lì accoglienza per la notte.

Il secondo giorno è iniziato il vero cammino: 36 chilometri fino a Sansepolcro, quasi 1200 metri in salita e altrettanti in discesa. Dopo Viamaggio i sentieri immersi in boschi maestosi sono diventati particolarmente difficili: qui passava la Linea Gotica e letteralmente zuppo di sudore mi sembrava di avvertire l’adrenalina che quegli alberi secolari dovevano avere respirato e ora mi restituivano. Finché due magnifici caprioli, probabilmente una mamma e il suo piccolo cucciolo, mi hanno tagliato la strada, non si erano accorti di me, ci siamo guardati per un attimo soltanto, ma è stato l’attimo più lungo del Cammino, mi è sembrato di viverlo al rallentatore, un attimo soltanto e poi rapidi, con pochi salti, erano già lontanissimi. Arrivo a Sansepolcro letteralmente a pezzi, ma felice.

Il terzo giorno è la tappa dei passaggi: 32 chilometri fino a Città di Castello. Si passa dalla Toscana all’Umbria, dalle salite aspre dell’Appennino ai sentieri più morbidi della Vallata dell’Alto Tevere, dai boschi umidi e ombrosi ai primi tratturi al sole. Il sole, tanto sole, poche fontane, troppo poche. Mentre il sudore scendeva dalla fronte come piovesse. Mi stavo disidratando, riconoscevo i primi sintomi, l’acqua nella sacca era terminata da un pezzo e non c’era nessuno nei dintorni a cui chiedere aiuto. Avanzavo pianissimo, ero stanco, un formicolio leggero mi avvertiva che anche la pressione stava piano piano scendendo. Ho lasciato il sentiero e provato ad avvicinarmi ad un casolare di campagna, c’era una macchina parcheggiata: segno che qualcuno lì dentro doveva esserci, forse. Mentre mi stavo avvicinando una tenda aveva iniziato a muoversi: così ho iniziato ad agitare le braccia e a far gesti: «ho finito l’acqua» sono riuscito a dire. Pochi sorsi e piano piano la vista si è fatta meno sfocata, sentivo nitidamente che tutto dentro tornava a riaccendersi: siamo delle meravigliose macchine. L’umore era ancora alto, a Città di Castello sono stato ospite delle Clarisse.

Da Città di Castello a Pietralunga ho camminato 31 chilometri, salite morbide, discese senza strappi importanti, era il quarto giorno di cammino e mi sentivo ormai pronto a tutto. Ma non ero pronto alla forte crisi di rabbia che mi avrebbe provocato questa tappa. Forse per la stanchezza, probabilmente per la sfacciata assenza di nuvole e ombre e il sole prepotente che schiacciava la mia ombra sull’asfalto, mamma mia quanto asfalto! Continuavo a pensare alle parole di un’oste che il giorno prima mi aveva servito un incredibile panino con del culatello sott’olio alle centerbe (che ve lo dico a fare!). Qualche battuta di rito e dopo aver notato lo zaino mi ha chiesto del Cammino; mi ha ascoltato; poi il silenzio; stava tentando di trattenersi, non voleva essere così diretto; ma non ce l’ha fatta me l’ha detto, tutto d’un fiato: «figliolo mio, non so tu, ma io non ho mica ucciso mi’ babbo e mi’ mamma insieme per meritarmi sto castigo!». Ci ripensavo e ridevo, ridevo forte, quasi singhiozzando, ma avrei voluto piangere: quel sole mi stava bruciando da dentro e sentivo di essere sull’orlo di una crisi. Era mezzogiorno e Pieve de’ Saddi è comparsa come un’apparizione: qui ho conosciuto altri pellegrini (allora c’erano!). Abbiamo pranzato insieme, ah la compagnia! È stato il pranzo più bello del cammino. «Resta a dormire qui! Si riparte domattina col fresco», ormai parlavamo come fossimo amici di vecchia data, ma ci conoscevamo solo da qualche ora: non potevano avere idea della mia brutta testardaggine «grazie! Ma avevo già deciso di provare a tirare fino a Pietralunga, appena cala un po’ il sole riparto». Ci sono arrivato a Pietralunga, ma ustionato dal sole, forse qualche linea di febbre: «Basta! Domani me ne torno». Il parroco che mi aveva offerto ospitalità stava ancora celebrando messa, così nell’attesa ho cercato una farmacia e un supermercato.

La Tachipirina della sera precedente aveva fatto effetto, anche ginocchia e spalle sembravano beneficiarne, era il quinto giorno di cammino, volevo mollare, ma non ero mai stato a Gubbio, non potevo andarmene senza prima fare un giro nella città del Lupo. Erano solo 26 chilometri e avevo lo zaino pieno di integratori, barrette proteiche e mousse di frutta: sarebbe stato l’ultimo sforzo, ultima tappa e poi rientro a casa. Ma l’asfalto questa volta sembrava correre più veloce sotto le scarpe, la nuova crema protezione 50 stemperava le tonalità rosso fuoco di braccia e polpacci. All’ingresso in città l’asfalto cuoceva le scarpe, ma questa volta avevo io il controllo. Si continua!

Per arrivare a Valfabbrica da Gubbio occorreva superare quasi 40 chilometri, ritornavano le salite difficili, le discese ripide, i boschi, i torrenti da guadare. Era il sesto giorno di cammino. Mi sono alzato tardissimo: erano già le 6, maledetta sveglia! Ma il passo ormai era veloce e così sono riuscito ad incontrare altri pellegrini (ecco qual era il segreto), qualche chiacchiera in fretta, poi salutavo e riprendevo il mio passo. Una pausa nell’eremo di san Pietro in Vigneto e poco dopo ero di nuovo a scalare sentieri duri e impervi, ma gratificanti. Oltre 12 ore in cammino, ero esausto, ma soddisfatto, mentre mi balenava per la testa un pensiero folle per l’indomani.

«Voglio arrivare ad Assisi con l’alba!» erano solo 13 chilometri, con un buon passo sarebbero state necessarie circa 3 ore. Ho messo la sveglia alle 2.45: alle 3 di notte ero già in cammino. Superato il centro abitato e i pochi lampioni è sceso il buio totale, ho provato ad accendere la torcia, ma non voleva saperne di accendersi, fino al giorno prima aveva funzionato, ma niente, non andava. Non mi restava che confidare nella torcia del telefono. Ad un certo punto però le indicazioni mi chiedevano di lasciare la strada ed entrare in un bosco, ho provato a fare qualche passo, ma sono stato subito cacciato via: un chiasso di foglie secche ha rotto il silenzio all’improvviso, forse per il passaggio rapido di una lucertola, intanto un uccello è saltato di colpo dal ramo sulla mia testa e delle lucciole allineate a mezz’aria mi guardavano come due occhi di belva selvatica. Ho deciso così di tornare sull’asfalto. Un cambio di rotta che mi è costato qualche chilometro e circa cento metri di salita in più. C’era un buio nero, senza uno spicchio di luna, i passi lenti, il sudore della salita si raffreddava addosso. Quando finalmente ha iniziato ad albeggiare, la paura e l’adrenalina hanno lasciato il posto al sonno: un sonno micidiale. Mi sono rassegnato così a chiudere gli occhi per qualche minuto, appisolandomi sul bordo del sentiero e usando lo zaino come cuscino. Sono crollato in un sonno senza tempo, avrei dormito per ore forse, se non fossi stato svegliato dal rumore sul mio collo del fiato di due enormi cani pastore: mi alzo di soprassalto e lancio un urlo, loro iniziano ad abbaiare spaventati. Sentivo la cassa toracica pronta ad esplodere, non riusciva più a contenere il cuore, mi siedo e inizio a parlare, a dire cose senza senso, ma con un tono rassicurante. Uno dei due cani, bianchissimi, forse pastori maremmani, accenna uno scodinzolio: «sono vivo!». Continuano ad abbaiare e piano piano si allontanano. Raggiungo Assisi in men che non si dica. E anche l’alba ad Assisi me la sono giocata, il sole della mattina già riscalda i miei passi.

È vero tutto è stato diverso dalle aspettative, ma forse ha ragione Luce, un’ospitaliera conosciuta ad Assisi: «Il Cammino non ti dà quello che cerchi, ma quello di cui hai bisogno».